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Parte terza

di Maria Chiara Carrozza *

Risulta evidente che i costituenti ritenevano fondante l’investimento pubblico nello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. Questo articolo, inclusivo della cultura che della scienza e della tecnica, non lascia adito a dubbi interpretativi: notevole che sia stata inserita anche la tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico, concepiti come essenziali all’identità e alle prospettive di crescita del paese.

Lo Stato deve quindi investire nello sviluppo della cultura e della ricerca, ma i governi hanno sempre mantenuto quest’obbligo? Qual’ è la misura per valutare l’adeguatezza dell’investimento?

Nei primi decenni della Repubblica lo sviluppo della ricerca è stato impetuoso: la creazione di enti di ricerca pubblici e nazionali, il CNR, l’INFN, l’ENEA e il sistema dell’università pubblica, che hanno contribuito a trasformare l’Italia da paese sostanzialmente agricolo e arretrato in uno dei paesi più industrializzati del mondo, è stata perseguita da tutte le forze politiche e dal sistema produttivo soprattutto pubblico (ENI, ENEL, Ferrovie dello Stato..).

Oggi invece? Stiamo assistendo ad un declino che sembra inarrestabile, gli enti di ricerca sono tagliati, accorpati, privi di missione e privi di risorse, il sistema universitario pubblico sta attraversando la crisi più grave della sua storia. Qualunque tentativo di riforma si scontra con un’inerzia e una reazione conservatrice che reagisce al cambiamento.

A partire dal dettato dell’articolo 9 abbiamo la responsabilità di arrestare questo declino, e le soluzioni per farlo sono legate alla capacità di rifondare il sistema degli enti di ricerca, di ricostruire un sistema di università che coniughi ricerca e formazione. Questo si può fare a partire dalla riforma del dottorato di ricerca e dalla differenziazione del sistema universitario dove università di ricerca perseguano progetti strategici di avanzamento scientifico e tecnico. Gli Enti di Ricerca devono ritornare alle origini, quando ad essi venivano affidati progetti multidisciplinari e liberi, di interesse nazionale, come per esempio lo studio del problema dell’approvvigionamento e del risparmio energetico, e la valutazione dell’impatto dei cambiamenti climatici.

Il reclutamento dei ricercatori deve avvenire in maniera trasparente e responsabile, e continua nel tempo per assicurare un ricambio generazionale adeguato.

Il problema non è solo di risorse ma anche di impostazione: troppo ideologici i criteri di approccio, mentre, come accade in altri paesi, la comunità scientifica dovrebbe essere coinvolta con una sua autonomia nella scelta degli indirizzi e delle compatibilità in diretto supporto del governo e del parlamento. L’articolo 9 nella sua essenzialità conteneva già tutto, la promozione della cultura in senso unitario, la ricerca pubblica e la sua valorizzazione per il progresso tecnologico del paese.

* Direttore Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa

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La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni. Dopo la seconda guerra mondiale si diffonde in Italia il significato dei colori quali: Verde dal colore delle divise dei militari, Bianco dal colore della neve sui monti italiani e Rosso dal colore del sangue versato dai caduti per la nostra Patria! Questi significati si riversano per lo più, considerato il clima in cui si viveva in quei tempi, a valorizzare l’unità del Paese, un Paese umiliato e ormai in ginocchio. La bandiera italiana, e con essa l’inno di Mameli, sono il simbolo dell’unità e rappresentano l’orgoglio di essere italiani. Tutti gli italiani si riconoscono sotto questi “simboli”. In questo articolo viene riconosciuta la bandiera italiana come “REALE” simbolo del Paese e i colori stabiliscono e richiamo i diritti dell’uomo quali Giustizia, Uguaglianza e Fratellanza, come vollero Giovanni Battista De Rolandis e Luigi Zamboni che per primi, 1794, in seguito alla rivoluzione francese, vollero rivendicare gli stessi diritti della rivoluzione, sostituendo l’azzurro con il verde. Questi diritti vengono poi riconosciuti di pari livello l’un l’altro dal fatto che sono di eguali dimensioni, significa cioè che tutti i cittadini italiani sono uguali e che non esiste tra loro alcun tipo di diversità, sia in ambito personale quanto in ambito giuridico e che questi diritti hanno lo stesso valore per tutti. Questo articolo è l’unione di tutti gli altri articoli della Costituzione, studiati fino ad ora; sotto i colori della bandiera, noi ritroviamo l’art 2 (La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo […]), l’art 3 (Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge […]), l’art 4 (La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto […]), l’art 5 (La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali […]); ossia, è sotto la bandiera italiana che si manifesta l’identità del cittadino, un cittadino che per essere italiano, deve pensare al bene comune, un cittadino che ha l’obbligo di non violare le libertà altrui e, soprattutto, un cittadino che riconosca l’Italia come unico Stato Indivisibile e unito e che debba lottare contro ogni forma di divisione!


L’articolo 11 è una dimostrazione illuminata dello spirito costituente, ovvero della capacità dei nostri Padri costituenti di essere al contempo moderni e visionari.

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali […] ’

Il principio della rinuncia alla guerra come forma di imperialismo esprime la ferma opposizione alla violenza militare come strumento di conquista e di offesa alla libertà dei popoli. Nella semantica della parola ‘ripudia’ – che ha sostituito nel corso dei lavori in Assemblea costituente la parola ‘rinuncia’ – si coagula tutta la ripugnanza morale verso gli orrori della guerra e della violenza che hanno profondamente ferito lo spirito democratico durante la seconda guerra mondiale. Con questo primo lapidario inciso, la Costituzione repubblicana dimostra tutta la sua modernità: l’Italia decide di rompere per sempre il cerchio del nazionalismo e dell’imperialismo, cristallizzando in un dovere categorico l’obbligo morale (prima ancora che giuridico) di vietare il ricorso alla guerra come strumento di conquista e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Ciò non significa che l’Italia sia un paese neutrale, ovvero che non si possa in nessun caso ricorrere alle forze armate; pur ammettendo che il ricorso alla guerra debba essere concepito come extrema ratio, la partecipazione dello Stato italiano alle azioni militari è consentita come strumento di difesa della libertà e dei diritti degli altri popoli, nel rispetto dei vincoli stabiliti dalla Comunità internazionale ed in particolare nel rispetto degli obblighi contenuti nella Carta delle Nazioni Unite.

L’Italia ‘ […] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.’

Nella seconda parte dell’articolo 11 si coglie tutta la visionarietà della nostra Costituzione. La solidarietà e la giustizia tra i popoli sono individuati come strumenti privilegiati di risoluzione delle controversie. Attraverso questo passaggio, al ripudio della legge della forza si combina l’aspirazione di creare vincoli tra i popoli per imporre la forza della legge come strumento di pacificazione: voltata per sempre la dolorosa pagina del nazionalismo, la nostra Costituzione si riallaccia alla tradizione del costituzionalismo democratico e liberale fondato sul rispetto dei valori internazionali della pace e del rispetto della dignità umana.

Ma c’è qualcosa di ancora più profondo in questo dettato costituzionale: la clausola relativa alla possibilità di consentire alle limitazioni della sovranità, a condizioni di reciprocità ed uguaglianza con gli altri Stati, segna la preminenza dell’interesse per la pace e la giustizia tra i popoli rispetto alla sovranità stessa. Attraverso tale auto-limitazione, la Repubblica consente la cessione di ‘pezzi’ della propria sovranità in favore di istituzioni sovranazionali che si pongono lo scopo di creare un’integrazione sempre più stretta tra i popoli. Così, una fattispecie formulata e pensata per l’ingresso dell’Italia nell’organizzazione delle Nazioni unite si è dimostrata sufficientemente elastica per consentire all’Italia di partecipare al processo di integrazione europea.

Sul consenso degli Stati membri si è celebrato il matrimonio degli interessi statali per la creazione della famiglia europea che ha dato vita prima alle Comunità europee ed oggi, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, all’Unione europea che abroga e sostituisce le Comunità. L’ordinamento dell’UE è ancora oggi un ‘ordinamento di nuovo genere’ a favore del quale gli Stati hanno rinunciato ai loro poteri sovrani, nei limiti delle competenze attribuite alle istituzioni dell’Unione europea, per garantire lo Stato di diritto, la democrazia, l’eguaglianza, la protezione dei diritti fondamentali. Un ordinamento del tutto peculiare nel contesto delle organizzazioni internazionali in quanto sono riconosciuti come soggetti non soltanto gli Stati membri (attualmente 27 Stati), ma anche i loro cittadini, attribuendo loro diritti soggettivi che possono invocare anche contro gli Stati membri cui appartengono. Il processo di integrazione europea è stato attraversato nel corso di oltre 50 anni da due direttrici fondamentali: l’approfondimento e l’allargamento. Da un lato, l’approfondimento che segna l’espansone materiale del raggio di azione delle istituzioni europee con un continuo trasferimento delle competenze dal livello statale al livello sovranazionale e, dall’altro, l’allargamento che mette in evidenza la progressiva estensione del campo di applicazione del diritto dell’Unione europea attraverso la continua adesione di nuovi Stati all’ordinamento europeo, hanno consentito l’avanzamento dell’ integrazione europea che ha proceduto talvolta con fughe in avanti mal digerite dai governi nazionali ed in alcuni casi con battute d’arresto, come dimostra da ultimo il recente fallimento del trattato-costituzionale. Se oggi il ‘sogno europeo’ vive una fase di stagnazione questo è dovuto dall’impasse dell’Europa come progetto politico e dalla crisi dell’Europa che vive ancora nel limbo di un’identità irrisolta. Nell’incapacità delle classi politiche nazionali di ritornare alla modernità ed alla visionarietà presenti nello spirito costituente, il processo di integrazione europea continua ad andare avanti grazie all’opera dei giudici. Il dialogo continuo tra le Corti Costituzionali e la Corte di Giustizia dell’Unione europea consente infatti un confronto permanente tra le varie tradizioni giuridiche degli Stati membri e garantisce la tutela di standard minimi di protezione di tutta una serie di diritti e libertà fondamentali che oggi costituiscono un patrimonio di valori condivisi tra i popoli europei.


La Costituzione, dopo aver affermato il concetto della sovranità nazionale, intendeva inquadrare nel campo internazionale la posizione dell’Italia: l’art. 10 dispone che l’ordinamento giuridico si adatti automaticamente alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Tali norme sono considerate parte integrante del diritto della Repubblica.
Con questa disposizione, dal grande valore simbolico e dalla profonda valenza sistematica ed ordinamentale, lo Stato da un lato, si riconosce membro della Comunità internazionale e, dall’altro, riconosce l’originarietà sia dell’ordinamento giuridico internazionale che di quello degli altri Stati. La disposizione sull’adattamento automatico al diritto internazionale generale riprende la formula della Costituzione di Weimar e risponde all’aspirazione di allargare la base dei rapporti internazionali del nostro Paese, (ri-)legittimando l’Italia ad agire ed operare nel contesto delle nuove relazioni internazionali, dopo che la partecipazione del nostro Paese al fianco della Germania nella seconda guerra mondiale aveva reso l’Italia uno ‘Stato nemico’ della Comunità internazionale.
L’articolo 10 comma 1 istituisce un dispositivo di adeguamento automatico del diritto interno al diritto internazionale generale. Il principio fondamentale che sta alla base di questo articolo è quello di ‘aprire’ il diritto interno all’ordinamento internazionale, facendo in modo che esso si adatti automaticamente, ossia senza bisogno di un atto legislativo di trasposizione degli obblighi che derivano dal diritto internazionale generale, salvo il caso di una normativa interna di integrazione di un precetto internazionale caratterizzato dall’incompletezza delle sue disposizioni. Ne consegue che un atto legislativo che risulti incompatibile con una regola di diritto internazionale di natura consuetudinaria deve essere dichiarato viziato da illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 10, comma 1. La citata disposizione costituzionale, con l’espressione «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», intende riferirsi soltanto alle norme consuetudinarie ed ai principi generali di diritto internazionale. In tal modo, le norme internazionali pattizie, contenute in trattati internazionali bilaterali o multilaterali, esulano dal campo di applicazione della norma. In altri termini, l’adeguamento automatico dell’ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, concerne esclusivamente i principi generali e le norme di carattere consuetudinario, mentre non comprende le norme pattizie contenute in accordi internazionali, salvo il caso degli accordi di codificazione che riproducono principi o norme consuetudinarie del diritto internazionale. Il richiamo all’obbligo di conformazione del diritto interno alle norme internazionali impegna l’intero ordinamento e riguarda sia la legislazione statale che quella regionale. Così, lo Stato e le Regioni – come ricorda ora anche il novellato art. 117 Cost. – nell’esercizio delle rispettive competenze sono chiamati a muoversi all’interno di uno spazio di manovra sempre più ristretto ed articolato, essendo entrambi obbligati a garantire la conformità degli atti normativi interni con gli obblighi sovranazionali, soprattutto nel caso in cui questi ultimi prevedono standard minimi di tutela dei diritti fondamentali.

Attraverso l’articolo 10, l’ordinamento giuridico italiano ha la possibilità di ‘vivere’ in un equilibrio dinamico col diritto internazionale generale; tale disposizione garantisce un dialogo continuo tra gli ordinamenti giuridici, coinvolgendo in maniera diretta tutti gli organi dello Stato e soprattutto gli organi giudiziari. Infatti, in ragione della natura non scritta delle regole consuetudinarie, l’interprete è chiamato ad assicurare la corretta interpretazione ed applicazione delle regole internazionali generalmente riconosciute, assicurando l’adeguamento automatico del diritto interno alla continua evoluzione del diritto internazionale.

Particolarmente rilevante risulta poi la disposizione di cui al terzo comma sullo statuto dello straniero. Al comma 3, l’articolo 10 enuncia che “lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. L’analisi di questo comma deve incentrarsi su due particolari questioni. Partiamo innanzitutto dalle condizioni che determinano la possibilità di avere diritto all’asilo. La portata della protezione garantita dal nostro testo costituzionale è molto più ampia rispetto a quanto stabilito anche dalla Convezione di Ginevra del 1951, testo cardine del diritto internazionale per quanto riguarda i rifugiati. Mentre, infatti, la Convenzione non impone l’obbligo di ammettere nel proprio territorio richiedenti asilo e dà una definizione di rifugiato strettamente collegata alla persecuzione personale (per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le opinioni politiche), il nostro articolo 10, anche a causa della condizione di esule vissuta in prima persona da molti padri costituenti, è stato redatto con l’intenzione di dare diritto d’asilo a chiunque non goda nel proprio Paese delle libertà democratiche garantite dalla nostra Costituzione. Proprio questa portata così ampia, probabilmente non prevista in un momento storico in cui, a differenza di oggi, il diritto d’asilo era più legato ai movimenti di persone in esilio per motivi politici che alle grandi migrazioni per motivazioni economiche, ha impedito una vera applicazione di tale diritto nel nostro Paese. Il secondo punto fondamentale riguarda la riserva di legge che la Costituzione ha attribuito alla legge ordinaria per una concreta applicazione del diritto d’asilo. Ad oggi, infatti, nessuna legge organica è stata ancora promulgata per garantire il diritto d’asilo sancito nella Costituzione. Va comunque detto che una reale protezione dei rifugiati e di altre persone bisognose di protezione internazionale dovrebbe essere realizzata grazie alla recente normativa europea. L’applicazione dei due decreti legislativi (251 del 2007 e 25 del 2008) di attuazione di due fondamentali direttive europee del 2004 e 2005 ed il richiamo nel Trattato di Lisbona alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea cui ora è riconosciuto lo stesso valore giuridico dei Trattati, rende vincolante il rispetto del diritto d’asilo secondo le norme della Convenzione di Ginevra, pur non con l’ampiezza garantita dall’articolo 10.3.

Tali normative porterebbero ad una effettiva protezione dei diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Il condizionale è però d’obbligo se si guarda alla realtà italiana, soprattutto dopo l’inizio della politica dei respingimenti in mare. Il respingimento dei migranti effettuati direttamente in mare verso la Libia (Paese non firmatario della Convenzione di Ginevra), infatti, non permettendo l’accertamento della presenza di persone che avrebbero diritto a qualche forma di protezione, viola ogni norma citata in questo commento. Per capire le dimensioni di tale ingiustizia, basti pensare che nel 2008 circa il 75% delle persone arrivate in Italia via mare ha fatto richiesta di asilo e che a circa il 50% di loro è stato riconosciuto lo status di rifugiato ovvero un altro tipo di protezione.


L’articolo 9 pone sotto tutela costituzionale il paesaggio oltre al patrimonio storico ed artistico. Quest’ articolo non pone sotto tutela esplicita l’ambiente, anche se la tutela dell’ambiente è stata riconosciuta come principio sia dalla Corte di Cassazione, che dalla Corte Costituzionale ed è tutelato da numerose direttive dell’Unione Europea e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che all’articolo 37 recita: “Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile.” L’articolo 9 letto poi insieme art 117, comma secondo, lettera s), che recita : “Lo Stato ha legislazione esclusiva nella tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” pone il principio della tutela dell’ ecosistema nella nostra costituzione. Come riconosciuto dalla sentenza n.104 della Corte Costituzionale.

Secondo la Corte, infatti, in base alla Costituzione, spetta “allo Stato disciplinare l’ambiente come un’entità organica”, attraverso “norme di tutela che hanno ad oggetto il tutto e le singole componenti considerate come parte del tutto”. E gli spetta farlo con una “disciplina unitaria e complessiva” che garantisca “un elevato livello di tutela, come tale inderogabile dalle altre discipline di settore”.

A fronte, quindi, del principio costituzionale della tutela del paesaggio e dell’ambiente, della salvaguardia dell’ecosistema e del principio di sviluppo sostenibile, con la disciplina dei condoni si assiste però a una profonda violazione di questi principi .
Ecco allora il ritorno di attualità dell’articolo 9 che deriva dal crescente bisogno di “arginare” la sempre più forte pressione dei valori di libera iniziativa economica privata e di proprietà privata che, sembrano tollerare sempre meno i controlli, considerati come “lacci e lacciuoli” , in funzione di un bilanciamento con altri beni ed interessi “antagonisti” (salute, ambiente, patrimonio culturale) che possono essere messi a rischio e pregiudicati dall’incontrollato svolgimento dell’impresa economica privata senza controlli e limitazioni dettati dall’interesse generale.


Questo articolo pone tra i principi fondamentali lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica e la tutela e salvaguardia del patrimonio storico, artistico, ed ambientale. Esso non trova riscontro in altre costituzioni occidentali e mostra la contemporaneità della Costituzione del ‘48 e la capacità dei costituenti di individuare valori e diritti che solo in seguito hanno mostrato appieno la loro forza ed essenzialità nel promuovere lo sviluppo non solo sociale e culturale della società, ma anche economico in una società post-industriale ed in una economia globale come quella in cui viviamo.

Per quel che riguarda la Cultura , il primo ed il secondo comma sono due previsioni, per quanto connesse, chiaramente diverse per oggetto, finalità e forza percettiva. Il primo comma attiene alle “attività culturali”, ”, mentre il secondo comma protegge il patrimonio culturale quale prodotto delle attività culturali pregresse, nella loro materializzazione concreta nelle cose mobili ed immobili che ne incorporano il valore culturale. Si difende, quindi, quanto prodotto dalle attività culturali nel corso della storia della nazione come patrimonio della nazione stessa e si pongono i presupposti affinche l’attività culturale, attraverso la sua promozione da parte della Repubblica continui a produrre ed ampliare questo patrimonio culturale. Entrambe le disposizioni assolvono, comunque, ad una medesima funzione, che è quella di introdurre un valore etico-culturale tra i primi valori della Costituzione.

Nel corso degli anni si è passati da una concezione puramente statico-conservativa della tutela dei beni culturali a una concezione dinamica orientata al loro pubblico godimento, in quanto naturalmente destinati alla pubblica fruizione e alla valorizzazione, come strumenti di crescita culturale della società.

Oltre che allo Stato in prima persona i compiti sopra indicati di promozione e tutela potranno essere espletati anche da altre corpi intermedi dello Stato, come Regioni, Province, Comuni, etc. Il termine “Repubblica” viene infatti adoperato nell’art. 9 Cost. nella sua accezione più vasta. È quindi lo Stato come ordinamento, in tutte le sue possibili articolazioni, che persegue la promozione culturale attraverso l’opera di ciascun soggetto pubblico, ognuno nella misura e nei limiti del proprio ambito di competenza.

I compiti di promozione culturale, non consentono (né presuppongono) un’ingerenza del potere politico sulla spontanea evoluzione della vita culturale. Una siffatta interpretazione è, infatti, esclusa dall’1° comma dell’art. 33 della Costituzione, secondo cui «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Tale precetto considera l’arte e la scienza come valore assoluto, che come tale non è passibile di essere condizionato dall’esterno, ma deve essere lasciato alle libere scelte dell’individuo, in quanto espressione della genialità umana e della personalità del singolo. Il Costituente ha, dunque, avvertito la necessità dell’intervento pubblico, inteso non come intervento ‘di parte’ o ‘politico’, ma come intervento ‘imparziale’ o ‘neutro’, in forza del quale l’incentivazione culturale dello Stato, per essere legittima, non deve essere tesa a soddisfare le esigenze politiche della maggioranza o a realizzare interessi economici privatistici. Il fine perseguito dalla Costituzione è, dunque, la crescita del pluralismo culturale, in quanto strumento di sviluppo della personalità dei singoli e, quindi, della collettività.

Il valore ed il significato profondo dell’articolo 9 della costituzione è evidenziato nell’intervento del Presidente della Repubblica Ciampi del 5 maggio 2003, in occasione della consegna delle medaglie d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte , di cui qui riportiamo uno stralcio:

“È nel nostro patrimonio artistico, nella nostra lingua, nella capacità creativa degli italiani che risiede il cuore della nostra identità, di quella Nazione che è nata ben prima dello Stato e ne rappresenta la più alta legittimazione. L’Italia che è dentro ciascuno di noi è espressa nella cultura umanistica, dall’arte figurativa, dalla musica, dall’architettura, dalla poesia e dalla letteratura di un unico popolo. L’identità nazionale degli italiani si basa sulla consapevolezza di essere custodi di un patrimonio culturale unitario che non ha eguali nel mondo. Forse l’articolo più originale della nostra Costituzione repubblicana è proprio quell’articolo 9 che, infatti, trova poche analogie nelle costituzioni di tutto il mondo: ‘La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione’. La Costituzione ha espresso come principio giuridico quello che è scolpito nella coscienza di ogni italiano. La stessa connessione tra i due commi dell’articolo 9 è un tratto peculiare: sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile. Anche la tutela, dunque, deve essere concepita non in senso di passiva protezione, ma in senso attivo, e cioè in funzione della cultura dei cittadini, deve rendere questo patrimonio fruibile da tutti. Se ci riflettiamo più a fondo, la presenza dell’articolo 9 tra i ‘principi fondamentali’ della nostra comunità offre un’indicazione importante sulla ‘missione’ della nostra Patria, su un modo di pensare e di vivere al quale vogliamo, dobbiamo essere fedeli. La cultura e il patrimonio artistico devono essere gestiti bene perché siano effettivamente a disposizione di tutti, oggi e domani per tutte le generazioni. La doverosa economicità della gestione dei beni culturali, la sua efficienza, non sono l’obiettivo della promozione della cultura, ma un mezzo utile per la loro conservazione e diffusione. Lo ha detto chiaramente la Corte Costituzionale in una sentenza del 1986, quando ha indicato la ‘primarietà del valore estetico-culturale che non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici’ e anzi indica che la stessa economia si deve ispirare alla cultura, come sigillo della sua italianità. La promozione della sua conoscenza, la tutela del patrimonio artistico non sono dunque un’attività ‘fra altre’ per la Repubblica, ma una delle sue missioni più proprie, pubblica e inalienabile per dettato costituzionale e per volontà di una identità millenaria”.


Uno Stato può essere definito ” laico” quando non fa propria una morale di matrice religiosa (derivata da una fede). In quest’ottica esso si contrappone allo Stato “clericale” in cui i precetti propri di una fede sono seguiti dallo Stato medesimo e diventano vincolanti per tutti i consociati. Il principio di laicità, pur non essendo citato espressamente, è uno dei principi fondanti della nostra Costituzione.

La sua esistenza discende, anzitutto, dal fatto che il nostro ordinamento si ispira al principio pluralista. Da esso deriva l’impossibilità per lo Stato, di dare prevalenza ad un orientamento ideologico rispetto ad un altro. Il principio di laicità si ricava , dunque dalla lettura combinata di numerose disposizioni della Costituzione. Come ha precisato al Corte costituzionale con la sentenza n.203 del 1989, il principio di laicità, declinato negli articoli 2, 3, 7, 8, 19, e 22, rappresenta un principio “supremo” che non potrebbe essere eliminato neppure mediante il procedimento di revisione costituzionale. Nell’articolo 7 si stabilisce la “separazione tra ordine religioso e ordine temporale”.

Questo rappresenta il pilastro del principio di Laicità, che pretende che non ci siano intromissioni ed interferenze fra i due ordini. In Italia , purtroppo, soprattutto negli ultimi anni, abbiamo avuto una violazione di questo costrutto. Pochi esempi: la Chiesa cattolica che fornisce indicazioni di voto ai parlamentari o che invita all’astensione sul referendum sulla legge 40; il governo che introduce nel progetto di legge sul testamento biologico le definizioni volute dalla gerarchia ecclesiastica ( in primis: “la vita non è un bene disponibile”).

Nell’articolo 8 si stabilisce il principio di “ eguaglianza delle religioni fra di loro”. Questo principio, che non è ancora stato completamente realizzato, pretenderebbe che tutte le religioni abbiano uguale spazio ed uguali diritti. Ci sono voluti più di quarant’anni per giungere alla dichiarazione d‘illegittimità costituzionale della tutela di penale della sola religione cattolica e ancora oggi la disparità di trattamento in ordine al finanziamento delle scuole confessionali appare evidente. Lunghe sono state le vicende legate all’insegnamento dell’ora di religione nelle scuole pubbliche, ancora oggi fonte di tensione, come tensione sussiste sul problema della esposizione, o meno, dei simboli religiosi.

In ogni caso, non si può ignorare che compito dello Stato deve essere garantire la parità tra le diverse confessioni religiose. Da questi due articoli ne deriva sia l’inammissibilità di discipline volte ad assicurare ad una fede un trattamento privilegiato rispetto a quello riservato alle altre, sia il divieto di discriminare una confessione specifica rispetto alle altre. Inoltre, dal punto di vista dei singoli, il supremo principio di laicità impone di dare analoga tutela al sentimento religioso di tutti, ivi compresi gli atei.


L’articolo 6 stabilisce che l’Italia tutela le minoranze linguistiche intese anche come minoranze etniche culturali, sia diffuse in modo minore in tutto il territorio che insediate in specifiche realtà territoriali come la Valle d’Aosta e l’Alto Adige . Esso si lega, quindi, all’articolo 5 relativo alle autonomie territoriali e al principio generale dell’articolo 2 che tutela le formazioni sociali come comunità intermedie tra i singoli e la Repubblica.

L’articolo 6 consente l’emanazione di apposite norme per tutelare le minoranze linguistiche collegandosi all’articolo 3 comma 2 che permette “discriminazioni positive”, emanazione di norme e leggi volte a rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà ed uguaglianza dei cittadini ne impediscono la piena partecipazione alla vita della Repubblica.

Per tener fede e applicare questo principio sono stati previsti diversi meccanismi attraverso una maggiore autonomia, un autonomia differenziata, a livello territoriale, e un sistema elettorale che garantisce piena rappresentanza alle minoranze francofone e tedesche presenti nei territori della Val d’Aosta e nelle province autonome di Trento e Bolzano attraverso un numero di seggi riservati alla Camera. Il principio di tutela delle minoranze linguistiche trova ulteriore applicazione negli statuti speciali che sono approvati con legge costituzionale, come lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige dove la lingua tedesca viene parificata a quella Italiana nei rapporti con gli uffici giudiziari e della pubblica amministrazione situati nella provincia.

Oltre che per le implicazioni specifiche a difesa delle minoranze linguistiche storiche insediate in precise realtà territoriali del nostro paese, l’articolo 6, riconosce la valenza identitaria dell’uso della propria lingua: L’uso di una determinata lingua esprime l’appartenenza di una persona a una determinata cultura e contribuisce a determinarne l’identità. Esso, quindi riafferma un fondamentale principio, il pluralismo, che contrassegna la nostra democrazia ed è espresso in varie disposizioni inserite nei principi fondamentali oltre che in vari punti della prima parte della Costituzione. Nello Stato “democratico di diritto”, nella democrazia liberale, “democrazia” non significa dominio della maggioranza anche se eletta tramite elezioni democratiche. L’articolo 6 , quindi, insieme all’articolo 3 comma 1 che vieta discriminazioni in base alla lingua ( così come in base alla religione, alla razza, al sesso, alle opinioni politiche, alle condizioni personali e sociali) riafferma e declina il principio pluralista della società democratica che non vuole assimilare le differenze ma riconoscendo il “diritto alla differenza” riconosce che i diritti degli altri, intesi sia come singoli che formazioni socio-culturali o etnico-culturali, esigono riconoscimento e tutela.

La realtà del nostro tempo, con il fenomeno dell’immigrazione e la presenza quindi di nuove minoranze etnico-linguistiche diffuse su tutto il nostro territorio nazionale, pone nuovi interrogativi al dibattito politico ed anche a quello legislativo con la discussione alla camera di una nuova legge sulla cittadinanza. Quale modello di integrazione e quale tutela per le nuove minoranze? L’articolo 6 potrà applicarsi anche a questi nuovo soggetti? Appare comunque chiaro che qualunque soluzione all’auspicabile integrazione degli immigrati nella nostra società dovrebbe avvenire nella cornice della democrazia costituzionale pluralista e , quindi, non dovrebbe prevedere l’assimilazione ad una cultura dominante, la rinuncia alla propria identità linguistica ed etnico culturale, alla conversione ad una presunta “Italianità” ma partire dal riconoscimento e valorizzazione delle differenze culturali ed etniche come patrimonio di tutta la società da tutelare e difendere essendo portatrici di ricchezza per la società tutta, democratica e plurale.


L’articolo 5 introduce, in via di principio, la garanzia di un’ampia libertà conferita alle diverse collettività territoriali nel perseguimento e nella gestione di interessi locali, mediante il riconoscimento di una posizione di autonomia in favore dei rispettivi enti esponenziali. Con l’articolo 5 Il principio autonomistico da modello organizzativo è elevato a principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale.

Esso denota la consapevolezza dei costituenti che il nodo stato-enti locali sarebbe stato centrale nel dibattito politico, e avrebbe condizionato l’intero ordinamento giuridico.

Si scelse la parola “autonomie”, un’intuizione che esprime in sé una novità assoluta molto distante dal “decentramento” francese.

Che cosa distingue il principio federalista da quello autonomistico?

Lo Stato federale per eccellenza è l’America. Gli Stati Uniti infatti sono composti da cinquantuno stati ognuno con la sua peculiare organizzazione statale (civile, penale e amministrativa), e pur questo, ciascuno unito agli altri Stati federati in materie fondamentali come l’economia, la finanzia, la politica estera, la sicurezza interna e la difesa. L’articolo 5 della nostra costituzione sancisce invece che La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali. Da un lato, nel federalismo, abbiamo stati indipendenti con pieni poteri legislativo, esecutivo e giudiziario e la possibilità di partecipare alla revisione costituzionale, che manifestano la volontà di federarsi, dall’altro, in Italia, la costituzionalizzazione del principio unitario e di indivisibilità che si articola in autonomie.

Oggigiorno ci troviamo in un momento storico peculiare in cui l’Italia partecipa a due processi: un processo di unione tra gli stati europei con cessione di competenze agli organismi europei e, contemporaneamente, un’attuazione forte del principio autonomistico sancito dall’articolo 5 della costituzione.

L’articolo 5 disegna un sistema di livelli di governo composti dagli enti locali capaci di dotarsi di un proprio indirizzo politico e amministrativo il più vicino possibile al cittadino con un autonomia anche finanziaria. Il contenuto della sfera di autonomia che genericamente l’articolo 5 riconosce a tutti gli enti locali, è poi precisato nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione. E’ chiaro anche il rimando all’articolo 1, le autonomie locali sono proprio uno dei limiti al potere legislativo ed esecutivo nazionale.

Solo dagli anni ’70 è stato avviato il processo per attuare il titolo quinto della costituzione con l’istituzione delle regioni ordinarie, fino ad arrivare alla riforma di quest’ultimo nel 2001. Questa riforma introduce il concetto fondamentale di sussidiarietà verticale ed orizzontale. Che cosa significa sussidiarietà? Che nello svolgimento delle funzioni pubbliche si preferisca l’ente più vicino ai cittadini (s. verticale) e che si lasci che siano i privati a svolgere alcune funzioni al posto del pubblico lasciando a questo di fissare i parametri con cui il privato eroga le funzioni pubbliche. (s. orizzontale).

Sempre il Titolo V della Parte seconda della Costituzione all’articolo 119 prevede che oltre all’autonomia amministrativa I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa. Questo principio non trova ancora applicazione piena nel nostro ordinamento e la legge in parlamento sul “federalismo fiscale”, ed il dibattito intorno ad essa, vuole attuare questo principio con una soluzione che deve tenere conto che il concetto “unitario” della nostra repubblica significa anche che i cittadini di tutta la repubblica hanno diritto agli stessi servizi e allo stesso standard di prestazione di questi servizi su tutto il territorio nazionale. Il “federalismo Fiscale” deve quindi prevedere meccanismi di ridistribuzione delle risorse dalle regioni economicamente ricche a quelle svantaggiate.


L’articolo 4 della nostra Costituzione riprende, ampliandolo, quello che l’articolo 1 sancisce essere il fondamento della nostra Repubblica. Assegna al lavoro il duplice ruolo di diritto e dovere, intesi non in senso  strettamente giuridico, ma rispettivamente come un fine cui lo Stato deve tendere ed un dovere morale cui ciascun individuo, cittadino o meno, dovrebbe adempiere, nel rispetto della libertà della persona. Il riconoscimento del lavoro come  uno dei principi fondanti della Repubblica, rimanda alla funzione che il lavoro svolge nella società, come mezzo di produzione di ricchezza materiale e morale per la persona, non come merce necessaria alla massimizzazione dei profitti, non come mero fattore di produzione,  ma come realizzazione dell’individuo e delle sue aspirazioni materiali e spirituali, e quindi della società tutta.

Con il riconoscimento della possibilità e della responsabilità di realizzare nel lavoro la propria personalità e, quindi, anche il proprio progetto di vita, la Costituzione fonda una società in cui ad ogni individuo è consentito un progetto individuale, indipendentemente dalle diverse situazioni di partenza. Questo principio completa e arricchisce i due pilastri della nostra carta fondamentale: il principio personalista (art. 2) e quello di eguaglianza, non solo nel suo aspetto formale, ma anche sostanziale (art. 3).

Il lavoro è inteso nel senso più ampio, in modo da ricomprendere l’iniziativa economica privata e quella del lavoro subordinato attribuendo statuti differenti, nella parte che la carta fondamentale dedica al lavoro.

La strada per la concretizzazione di questo articolo sul piano legislativo è stata lunga e faticosa, sempre soggetta a possibili battute d’arresto.

Lo statuto dei Lavoratori, approvato negli anni ’70, fece propri i principi dell’articolo 1 e dell’articolo 4, a partire dalla libertà di opinione del lavoratore che non può diventare fonte di discriminazione (art. 1) per comprendere poi alcune disposizioni atte a tutelare il subordinato rispetto alla posizione dominante del datore di lavoro: per quanto riguarda le misure di sorveglianza, di licenziamento, sanzioni disciplinari etc.

A seguito di alcuni cambiamenti interni al mondo del lavoro, si è cercato di adattare il diritto del lavoro alle nuove sfide della contemporaneità riducendo alcune rigidità ed introducendo forme di flessibilità. La riforma del mercato del lavoro del 2003, la così detta Riforma Biagi ha apportato dei cambiamenti che avrebbero dovuto portare ad una maggiore flessibilità ma a cui il nostro paese non era pronto, né economicamente, né culturalmente.

Questo ha comportato il passaggio da una stagione dei diritti del lavoratore come quella degli anni anni settanta, in cui vennero tradotti a livello legislativo i principi costituzionali, alla stagione della precarizzazione del lavoro e dell’individuo, e quindi della società. Non possiamo che essere unanimi con la nostra Costituzione, ritenendo che istituti,  come quello della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato,  da parte di agenzie di lavoro interinale,  sia uno svilimento di quel mezzo di realizzazione umana che riconosce l’articolo 4.

I cambiamenti apportati non sembrano adeguati tutt’oggi per un mondo del lavoro ancora in evoluzione, ma soprattutto per la tutela piena del lavoratore.

Un altro aspetto del mondo del lavoro che oggi risulta non rispettare i principi costituzionali è la differenza di trattamento che le donne ricevono, spesso anche in termini di salario. Lo stato ha previsto alcune forme di tutela, che risultano non adeguate a colmare il divario tra uomo e donna.